Non sono particolarmente appassionato di musica
jazz, ma da sempre Thelonious Monk è tra i miei pianisti preferiti.
Volevo consigliare l'ascolto di questo solo album registrato nel
lontano 1959. Si tratta di pura magia tradotta in musica! Questo
disco nasce in un periodo, la fine degli anni ’50 e l’inizio dei
’60, molto importante e prolifico per Monk, che vede
finalmente acclamato sia dal pubblico sia dalla critica il proprio
particolare modo di suonare. A tal proposito riporto l'ottima
recensione che ho recuperato in rete:
Cosa fa di
Thelonious Monk Thelonious Monk? Le partiture ambigue a metà strada
tra melodia e stridore; uno stile rigido e compartimentato; una
creatività che non teme la sindrome del pentagramma e confeziona
strumentali sublimi con una naturalezza disarmante; il fascino
sottile di una musica che prima di diventare esposizione corale è
sussulto in solitaria, riflessività, introspezione. C'è una
discografia solista nutrita quanto necessaria a dimostrazione, quasi
a sottolineare che è nella forma più scarna possibile che risiede
davvero la poesia di Monk. Composizione e scrittura prima che gesto
tecnico, personalità che oltrepassa l'imborghesimento istituzionale
del jazz per trasformarsi in una fissità stilistica quasi immutabile
e peculiare. Da Thelonious Himself – pubblicato due
anni prima di Alone In San Francisco – in avanti il
suono del pianista americano trova un baricentro fatto di distonie,
ritmiche pacate, temi immediatamente riconoscibili. Frutto di un
lavoro di cesello sulle atmosfere che è profondamente legato
all'intuizione e al fraseggio più che al virtuosismo, a un pianismo
che di lì fino alla morte del musicista – avvenuta nel 1982 –
non cambierà quasi più.
La fine degli anni cinquanta e l'inizio dei Sessanta
rappresentano per Monk il periodo più prolifico e fortunato della
carriera, finalmente vissuto al centro dell'attenzione del pubblico e
lontano dalle invettive aspre dei critici più restii a
istituzionalizzare un sentire jazzistico così particolare.
Universalmente riconosciuto come una delle personalità artistiche
più eclatanti, grazie una proposta musicale slegata dai canoni
estetici del tempo – il be bop, l'impegno politico, il free
che verrà – e a un carattere solitario e stravagante. Una nota
biografica, quest'ultima, sintetizzata perfettamente dalla musica di
Alone In San Francisco, un sentire misurato, di poche
parole ma al tempo stesso riconoscibile. Che lo si affronti partendo
dallo “scherzo” di Blue Monk o dalla raffinatezza di Ruby
My Dear poco importa: l'intimismo rarefatto e meravigliosamente
“altro” messo in mostra trasforma i due brani – e lo stile che
li contraddistingue - in classici, oltre che in termine di paragone
per tutta la produzione a venire del Nostro. Come il resto del
programma, che a vederlo accadere in quel modo così goffo tra
picchettate “grossolane” e svisate – cercate un qualsiasi
filmato su You Tube e capirete –, non ti spieghi come possa uscirne
tutta quella poesia.
Eppure è così. Ce lo conferma Round Lights
con il suo blues “svirgolettato”, lo ribadisce Pannonica a
suon di scale e cambi di tono, lo sottolinea la conclusiva
Reflections tra timbri variabili e malinconie che si
rincorrono. Mentre BlueHawk, con il tema composto soltanto da
quattro note, ci illustra brevemente pregi e difetti – pochi –
della formula di Monk: immediatezza e banalizzazione delle formalità,
per indagare, invece, le gradazioni di colore. Nei quarantacinque
minuti del disco ci si imbatte anche in quattro riletture che non
fanno che ribadire la statura artistica del pianista. Everything
Happens To Me è una cover di Matt Dennis che rimpolpata con i
fasti dell'improvvisazione, diventerà un evergreen dei concerti del
pianista; You Took The Words Right Out Of My Heart è uno
standard ripreso anche da Benny Goodman; Remember di Irving
Berlin è un classico di Ella Fitzgerrald qui swingato e “espanso”;
There's Danger in your Eyes, Cherie è un brano anni '20-'30
che Monk trasfigura e modernizza rendendolo quasi riconoscibile.
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